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Gli anni corrono, passano velocemente. Spesso, non ce ne rendiamo nemmeno conto. Teniamo il numero degl'anni trascorsi su questa terra, quello che abbiamo fatto... Quello che avremmo potuto fare. Rimorsi? Per alcune persone dovrei averne. Per altre, dovrei pentirmi o addirittura anelare il perdono. La verità è che c'è sempre qualcuno che soffre, qualsiasi decisione prendiamo. Ed è impossibile far tutti felici. La prima parte della mia vita la si potrebbe addirittura definire banale e noiosa. Non sto nemmeno a raccontarvi di come ho passato le mie giornate fra giochi, musica, racconti ed altre cose "istruttive”. Nella tribù in cui vivevo, in base alla tua funzione (spesso designata dal retaggio a cui si apparteneva), fra i 20 e i 50 anni bisognava sottoporsi ad una sorta di "rito di passaggio", la Rangwe. Avevo visto spesso ragazzi e ragazze più grandi di me imbracciare il proprio pugnale e partire. Ma non sapevo per dove o in cosa consistesse la prova. Di rado, qualcuno non tornava.
Venne così il momento. Il mio momento. Partimmo all'alba. Eravamo in tre a dover affrontare la prova. Per tutti, la meta era unica: un orso nero. Credetemi se vi dico che già solo il viaggio non fu semplice. Ma non impossibile. L’accampamento si trovava a nord dei boschi, in una piccola radura circondata dalla natura lussureggiante. Abbandonammo quei luoghi, per spingerci verso Nord, verso la catena montuosa. Le terre diventavano più ispide ed aride, diverse dai verdi luoghi a cui eravamo abituati, in cui eravamo cresciuti. Ci conoscevamo sin dall’infanzia. Del trio, io ero la mezzana. Conoscevo Nathira da sempre. Era una guerriera nata, abilissima nell’arte della spada. Leothr invece era un arciere, come me, abile nell’arte della caccia e della sopravvivenza. Un trio affiatato, tutto sommato. Il viaggio fu relativamente tranquillo, difficoltoso per via della zona a noi sconosciuta. Non ci perdemmo, era difficile farlo. Almeno, dai boschi alle montagne il sentiero era uno. E se anche non c’era un sentiero, i monti erano ben visibili da quella distanza. Le notti erano stellate, talune volte fredde. Facevamo i turni di guardia. E capitò, una notte, di rimanere sveglia nonostante non toccasse a me. Ero sdraiata, nel mio angolo, poco distante dalla luce del fuoco. Le voci erano basse, ma abbastanza chiare da comprendere che si trattava dei miei compagni di viaggio. Tenevano nascosta quella relazione ormai da tempo sufficiente. Quel tanto che bastava per capire perché, al mio turno di guardia, uno dei due faceva finta di dormire. Io non dissi nulla, poiché non era mio interesse immischiarmi in queste cose. Giungemmo ai piedi della catena montuosa, e già la mappa in nostro possesso era poco dettagliata. Iniziammo ad aggirarci in quella zona, fin quando non trovammo un’antica caverna. Non era quello il nostro obiettivo, ma la curiosità ci spinse a perlustrarla. Un arco e delle colonne si presentarono davanti a noi, facendo da ingresso ad una buia scalinata che discendeva verso le viscere della terra stessa. Sembrava un luogo molto antico, e dava l’impressione che non vi entrasse nessuno da secoli. Delle iscrizioni alla base di una delle due colonne ci fecero capire che era il luogo che stavamo cercando. In religioso silenzio, ci guardammo annuendo ed una volta accese delle fiaccole ci inoltrammo nelle tenebre. Il luogo era umido, antico, in rovina. Si sentivano i passetti dei ratti che vi abitavano. E in cuor nostro speravamo che vi abitassero solo loro. Ragnatele pendevano dal soffitto. L’aria era fredda, e di tanto in tanto uno spiffero soffiava dietro il nostro collo facendoci rabbrividire. Era buio, non fosse stato per le nostre torce. Lunghe ombre si disegnavano sui muri, allungandosi nelle tenebre. Ed il silenzio sembrava far parte di quelle sale abbandonate. Girammo un angolo, ritrovandoci in un bivio. Avevamo deciso di non separarci, qualora vi fosse effettivamente qualcosa in quelle tenebre che ci aspettava. Alla fine del corridoio, ci ritrovammo innanzi ad una porta. Schiudemmo l’uscio e la prima cosa che notammo fu un fascio di luce che proveniva dal tetto diroccato. Una volta che tutti e tre ci ritrovammo nella sala, la porta alle nostre spalle si chiuse ed una voce iniziò a riecheggiare nell’aria. Una voce lontana, che non apparteneva ne ad un uomo ne ad una donna. Raggelai, nel vedere una sagoma opalescente apparire al centro della stanza. E nel cercare i miei compagni, notai di essere sola. Qual tipo di stregoneria fosse, non mi era chiaro. La voce parlava in un’antica lingua che non riuscivo a comprendere. La sagoma era sfuggente, non si distinguevano i tratti. Solo una cosa mi fu chiara: un ampio, sadico sorriso. Alzò una mano e dalle tenebre apparirono due sagome, due ombre. Armate. Una davanti a me, ed una alle mie spalle. Con chiare intenzioni poco amichevoli. Non aspettai che le parole uscissero dalle mie labbra. Agii senza indugio afferrando il mio pugnale. Lo lanciai e questo partì, senza quasi prendere la mira, sul bersaglio più vicino. Uno scocco, il sibilo del ferro che fendeva l’aria. Il tonfo sordo del bersaglio colpito in pieno petto. La guardai rovinare a terra, come un sacco svuotato. Ma qualcosa aveva ferito me. Sentivo una una fitta sulla schiena, una lama era affondata nella mia schiena, tagliando la pelle dal basso verso l'alto, in diagonale. Una nuova voce, seguita da una risata, echeggiò ed il velo che copriva quelle due sagome svanì. Nathira era a terra, gli occhi riversi all'indietro, il corpo ancora tremante mentre il sangue sporcava il pavimento. Raggelai, accecata dal dolore fisico. Cosa voleva dire tutto ciò? Perché… Il vuoto prese spazio nella mia mente. Era la voce di Leothr, che sembrava ripetere quell'unica domanda che risuonava costante. Alzai lo sguardo su di lui, incrociandone uno colmo di dolore, risentimento, ma anche di paura. La lama che mi aveva colpito era la sua e grondava del mio sangue. Indietreggiai, colpevole. Senza guardarmi alle spalle, corsi via. Non sapevo come, non sbagliai corridoio. Trovai l’uscita, quell'aria più calda e soffocante. Gli occhi lucidi appannavano la vista. Le tempie pulsavano, e nella mia mente era solo confusione. La piana si estendeva davanti a me, ma non potevo più tornare indietro. Con le lacrime che rigavano il mio viso, lasciai quel luogo il più presto possibile, col favore della notte che nel mentre era calata. Non mi guardai mai indietro, colpevole di un crimine compiuto erroneamente. Vittima di un incantesimo che ancora tormenta le mie notti. Come quella voce, che nelle ore più buie sussurra ancora empie parole. Quel sorriso sadico, che albeggia su di me come una sottile falce di luna. Da allora sono passati 46 anni. Da allora, non sono più tornata. Non so in realtà cosa Leothr raccontò agli anziani, cosa sarebbe stato di me se fossi tornata all'accampamento. Probabilmente, è una di quelle cose che qualcuno rimpiangerebbe. Non io… Non fin quando le parole di quell’essere non mi saranno chiare. Vendetta? Muoversi in tal senso sarebbe folle. Verso uno spirito, un fantasma poi… E’ più un’espiazione, questo mio viaggio, questa mia vita. E prima o poi, troverà la propria fine.